Resigning – Licensiamento di lavoro in Italia

Resigning – Licensiamento di lavoro in Italia

Il licenziamento è l’atto con cui il datore di lavoro fa cessare unilateralmente il rapporto di lavoro, a prescindere dalla volontà del dipendente. La L. n. 604 del 15 luglio 1996, dello
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Statuto dei Lavoratori e la L. n. 108 del 11 maggio 1990, prevedono vari tipi di licenziamento: per giusta causa, per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) ed il licenziamento collettivo.
Sommario
• Che cos’è la giusta causa
• Giusta causa e giustificato motivo soggettivo: differenze
• Normativa
• Come impugnare il licenziamento per giusta causa
• Licenziamento illegittimo: conseguenze
• Casistica
Che cos’è la giusta causa
Il licenziamento per giusta causa, è disciplinato dall’art. 2119 c.c. (per approfondimenti vedi anche l’
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art. 2119 c.c. nel Codice civile commentato) che recita: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.”
È la forma più grave di licenziamento e viene comminato per via di un grave inadempimento commesso dal lavoratore, tale da compromettere il suo rapporto di fiducia con il suo datore di lavoro. Secondo la norma codicistica, costituisce giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro, prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato “una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro”.
Elemento costitutivo della giusta causa non previsto dalla legge, ma dedotto dalla giurisprudenza, è l’immediatezza degli effetti del provvedimento espulsivo (c.d. licenziamento in tronco), che resta comunque compatibile con un congruo intervallo di tempo necessario all’accertamento dei fatti contestati al lavoratore.
In tale fattispecie, la condotta del lavoratore è così grave da determinare il recesso immediato dal rapporto di lavoro, senza la corresponsione, da parte del datore di lavoro, dell’indennità di preavviso. La giusta causa di licenziamento deve determinare il venir meno dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, dall’altro, la proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione, per accertare se la lesione dell’elemento fiduciario, sia tale da giustificare l’applicazione della massima sanzione disciplinare.
È ravvisabile la giusta causa, ad esempio, di nei casi di insubordinazione verso i superiori; furto di beni aziendali durante l’esercizio delle sue mansioni, di diffamazione dell’azienda e dei prodotti della stessa; minacce nei confronti del datore di lavoro o di colleghi, di danneggiamento di beni aziendali, di falsa malattia e falso infortunio, di violazione del patto di non concorrenza, di uso scorretto dei permessi per ex legge n. 104/92. Nella
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Legge n. 183/2010 il legislatore ha sancito che, nel valutare le motivazioni del licenziamento, il giudice sia vincolato alle tipizzazioni della giusta causa o del giustificato motivo presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi o nei contratti individuali certificati.
Giusta causa e giustificato motivo soggettivo: differenze
Il licenziamento per giusta causa non va confuso con il licenziamento per giustificato motivo di tipo soggettivo, costituito da “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro”. Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo si delinea nel caso in cui il lavoratore tenga una condotta disciplinarmente rilevante. Nella casistica di questo tipo rientrano la condotta negligente del lavoratore o il suo scarso rendimento o la violazione degli obblighi contrattuali o la lesione di un interesse rilevante per il datore di lavoro. Parimenti a quello per giusta causa, anche quello per giustificato motivo soggettivo rientra nell’alveo dei licenziamenti disciplinari, a cui andrà applicata la procedura ex art. 7 dello Statuto dei lavoratori; secondo tale disposizione, il datore di lavoro dovrà effettuare una precisa contestazione dell’addebito al lavoratore.
Inoltre, come per il licenziamento per giusta causa, anche nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo viene meno il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro ed il dipendente. La differenza tra le due fattispecie di licenziamento è quello di collegare l’elemento soggettivo alla giusta causa al dolo o alla colpa gravissima; dunque il discrimine tra le due tipologie consiste nella minore o maggiore gravità del comportamento tenuto dal lavoratore.
Nel caso di licenziamento per giusta causa sarà così grave da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria del rapporto lavorativo, per cui ci sarà una risoluzione immediata del contratto; mentre nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, la condotta sarà grave ma non così tanto da interrompere immediatamente il rapporto. In tale ipotesi, il dipendente avrà diritto al periodo di preavviso, ovvero un lasso di tempo tra il giorno della comunicazione del licenziamento e l’ultimo giorno di lavoro.
Dunque nel caso di licenziamento di giusta causa, il rapporto di lavoro viene interrotto immediatamente e non è prevista alcuna indennità, mentre nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, è prevista l’indennità di preavviso.
Normativa
Nel nostro ordinamento, la normativa riferita al licenziamento è costituita dalla Legge n. 604/1966 e dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970), che tutelano i lavoratori nelle ipotesi di licenziamento illegittimo; la Legge n. 92/2012 (c.d. riforma Fornero) ed il D.lgs. n. 23/2015con cui è stato introdotto il c.d. sistema a tutele crescenti.
La legge n. 300 del 20 maggio 1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori) ha introdotto con l’art. 18, la c.d tutela o stabilità reale, ovvero la previsione della non validità del licenziamento privo di giustificazione (non disciplinato dalla legge n. 604/1966) con la sostituzione della sanzione alternativa reintegrazione pagamento di un’indennità, con quella della reintegrazione nel posto di lavoro, dunque stabilendo, in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, che il lavoratore fosse protetto da una tutela reale.
Detto regime di tutela, non riguarda indistintamente tutti i lavoratori, ma solo quelli assunti da imprese che occupano alle loro dipendenze più di quindici dipendenti in ciascuna sede, oppure più di cinque lavoratori nel caso di imprese agricole.
L’applicazione della tutela obbligatoria venne estesa con la Legge n. 108/1990 a tutte i casi di licenziamento discriminatorio ed a tutti i datori di lavoro, con unica esclusione delle organizzazioni di tendenza, con più di sessanta lavoratori, anche se occupati in unità produttive con meno di quindici o con meno di cinque dipendenti se imprese agricole.
Successivamente venne approvata la legge di riforma n. 92 del 28 giugno 2012 (c.d. Riforma Fornero), che ha modificato la materia dei licenziamenti, sostituendo l’originario testo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, mutando il contenuto della tutela reale nel caso di licenziamento illegittimo, quindi fissando una serie di sanzioni graduate secondo diverse intensità in base al tipo di licenziamento. In particolare, ha introdotto, per i casi di licenziamento intimato per ragioni economiche da parte dei datori di lavoro rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 18 della L. 300/1970, una procedura di conciliazione obbligatoria, propedeutica al licenziamento, contenuta nel novellato art. 7 della Legge n. 604/1966, da promuovere innanzi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Ha poi sancito l’obbligo di comunicazione per iscritto delle motivazioni che hanno determinato la volontà del datore di lavoro di recedere, a pena di inefficacia del licenziamento.
Inoltre, ha previsto la possibilità per il datore di lavoro di revocare il licenziamento entro 15 giorni dal momento in cui ha ricevuto la comunicazione dell’impugnazione da parte del lavoratore. Nella suddetta ipotesi, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza continuità, con diritto del lavoratore a percepire la retribuzione maturata prima della revoca. Ciò è stato confermato anche nel D.lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act).
Tale decreto legislativo ha introdotto un’ulteriore disciplina sanzionatoria per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015, ovvero dall’entrata in vigore del citato decreto legislativo.
Ad oggi sono in vigore quattro regimi di tutela contro i licenziamenti illegittimi, individuabili in base alla dimensione dell’impresa e la data di assunzione del prestatore di lavoro. Pertanto, per i lavoratori della piccola impresa assunti prima del 7 marzo 2015 sussiste la tutela obbligatoria ai sensi dell’art. 8 Legge n. 604/1966; per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 si applica la tutela reale/indennitaria ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav.; per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 vi è la tutela reale/indennitaria ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 23/2015; per i lavoratori della piccola impresa assunti dopo il 7 marzo 2015 sussiste la tutela solo indennitaria ai sensi dell’articolo 9, 2 co., d.lgs. n. 23/2015.
Nell’ambito delle imprese con più di 60 dipendenti totali (o unità produttive con più di 15 dipendenti), il datore è tenuto a reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore se il licenziamento per giusta causa era illegittimo per insussistenza del fatto o perché i contratti collettivi sancivano, una sanzione disciplinare diversa per la condotta tenuta dal lavoratore.
Per le imprese con meno di 60 dipendenti totali, si applica la l. 604/66, per cui in caso di licenziamento illegittimo, il datore dovrà riconoscere un’indennità economica al dipendente, ma non dovrà reintegrarlo.
Per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, non sussiste, anche nelle imprese con dimensioni superiori al suddetto limite, l’obbligo di reintegro per illegittimo licenziamento quando venga accertato che la condotta fosse punibile con una diversa sanzione disciplinare.
Il datore di lavoro, dovrà reintegrare il lavoratore solo se il giudice stabilirà che il licenziamento per giusta causa era illegittimo per insussistenza del fatto contestato.
Come impugnare il licenziamento per giusta causa
Nei casi di accertata illegittimità di licenziamenti per giustificato motivo e per giusta causa, il D.Lgs. n. 23/2015 prevede un indennizzo economico onnicomprensivo commisurato all’anzianità di servizio e non soggetto a contribuzione previdenziale. Il giudice dichiarerà estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condannerà il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non soggetta a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità.
I termini di impugnazione del licenziamento sono fissati a 60 giorni, calcolati a partire dal giorno in cui la lettera di licenziamento è stata ricevuta dal lavoratore; quest’ultimo dovrà scrivere una lettera all’azienda in cui dovrà confermare la volontà inequivoca di impugnare il recesso del contratto di lavoro: Il lavoratore dovrà anche depositare l’atto di ricorso presso la cancelleria della sezione lavoro del tribunale ordinario, entro 180 giorni dalla spedizione della lettera di impugnazione. In alternativa, il lavoratore può comunicare all’azienda (la richiesta di un tentativo di conciliazione da parte dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro.
Nel caso venga intrapresa la via della conciliazione, vi saranno tre possibilità: l’azienda, convocata, non si presenta alla conciliazione; l’azienda si presenta ma non raggiunge un accordo con il lavoratore; l’azienda si presenta e l’accordo viene raggiunto. Nel primo caso, il lavoratore dovrà fare ricorso al Giudice del Lavoro entro 60 giorni dalla mancata conciliazione; nel secondo caso, riprendono a decorrere i 180 giorni entro cui può depositare il ricorso in tribunale.
La mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato, inoltre, non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro, ma impedisce al lavoratore di accedere al regime di tutela reale tradizionale, ferma la possibilità di esperire, l’azione risarcitoria ordinaria.
In merito all’onere della prova nelle controversie in materia di licenziamento, spetta al lavoratore che impugna il licenziamento dimostrare, quale fatto costitutivo della pretesa, oltre al rapporto di lavoro subordinato, l’esistenza del licenziamento e l’avvenuta estromissione dal luogo di lavoro.
Con l’introduzione del Decreto Legislativo n.23/2015, per il lavoratore è preferibile ottenere il riconoscimento di un’indennità di licenziamento anziché il reintegro: se ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 si applica ancora l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, a quelli assunti dopo si applica la normativa sull’indennizzo economico in base dell’anzianità di servizio.
Pertanto, se un lavoratore è stato licenziato per una causa ritenuta dal Giudice del Lavoro ingiustificata, potrà ottenere un indennizzo tra le 4 e le 24 mensilità, a seconda degli anni di servizio.
Nel caso di licenziamento illegittimo, discriminatorio o nullo, dunque, il Giudice del Lavoro può disporre il reintegro del lavoratore in azienda e condannare quest’ultima al pagamento di un risarcimento, pari ad un massimo di cinque mensilità a partire dal giorno del licenziamento e sino a quello del reintegro, sottraendo però quanto percepito dal lavoratore in un eventuale altro lavoro (oltre ai contributi dovuti all’INPS). Se il giudice del lavoro ritiene il licenziamento illegittimo, il lavoratore avrà diritto ad un indennizzo calcolato in base agli anni di servizio svolti presso il datore di lavoro che l’ha licenziato.
Se i motivi del licenziamento non sono fondati, il lavoratore viene reintegrato e riceve un’indennità commisurata alla sua retribuzione e non superiore alle 12 mensilità; se il licenziamento è illegittimo per assenza di causa o vizi procedurali, il lavoratore l’indennità andrà da un minimo 2 e massimo 12 mensilità. Se il licenziamento viola i criteri stabiliti dalla Legge 223/91, l’indennità va da 4 a 24 mensilità; se l’azienda ha meno di 15 dipendenti, il licenziamento illegittimo da diritto ad un massimo di 6 mensilità di indennizzo.

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Licenziamento illegittimo: conseguenze
In caso di licenziamento illegittimo è possibile impugnarlo e richiedere un indennizzo o il reintegro in azienda.
Il licenziamento deve essere impugnato con qualunque atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale, entro il termine decadenziale di 60 giorni dalla ricezione della comunicazione di licenziamento.
L’impugnazione stragiudiziale è inefficace se entro i successivi 180 giorni non è depositato il ricorso nella cancelleria del Tribunale del lavoro competente oppure non è inviata alla controparte una richiesta di conciliazione o di arbitrato.
Nel caso si sia intrapresa la via della conciliazione, saranno possibili tre soluzioni: l’azienda, convocata, non si presenta alla conciliazione; l’azienda si presenta ma non raggiunge un accordo con il lavoratore; l’azienda si presenta e l’accordo viene raggiunto. Nel primo caso, infatti, il lavoratore dovrà fare ricorso al Giudice del Lavoro entro 60 giorni dalla mancata conciliazione; nel secondo caso, riprendono a decorrere i 180 giorni entro cui può depositare il ricorso in tribunale.
Il D.lgs. n. 23/2015 ha introdotto un nuovo regime di cosiddette tutele crescenti per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato (c.d. contratto a tutele crescenti) a partire dal 7 marzo 2015, applicabile ai lavoratori “con qualifica di quadri, operai e impiegati assunti dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.
In caso di illegittimo licenziamento viene favorito il pagamento di un indennizzo rispetto alla reintegrazione. Il nuovo regime prevede una correlazione tra la misura dell’indennizzo economico e l’anzianità aziendale, facendo sì che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato sia definito “a tutele crescenti”.
Nel caso in cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo o per giusta causa sia dichiarato illegittimo dal giudice, il lavoratore potrà essere risarcito con il pagamento di una indennità da 6 a 36 mensilità, determinata in modo crescente in base all’anzianità di servizio del lavoratore.
Rileva a tal proposito, la sentenza n. 194/2018 con cui la Corte Costituzionale ha di giudicato come contraria alla Costituzione la parametrazione dell’indennità per illegittimità del licenziamento alla sola anzianità di servizio; pertanto, nell’individuare la misura dell’indennità, il giudice dovrà tener conto, oltre all’anzianità di servizio, anche del comportamento e delle condizioni delle parti del rapporto di lavoro.
Nel caso di licenziamento illegittimo, discriminatorio o nullo o disciplinare, rimane applicabile la tutela reintegratoria. L’art. 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) ha stabilito che, annullando il licenziamento, il giudice ordini la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanni il datore di lavoro al risarcimento del danno oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
Dunque, è riconosciuto al lavoratore la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, la corresponsione di una indennità di 15 mensilità della retribuzione; tale importo si aggiungerà a quello già liquidato dal giudice a titolo di risarcimento del danno.
Inoltre, l’art. 18 della legge 300/1970 sancisce che l’indennità sostitutiva della reintegrazione vada calcolata facendo riferimento alla “retribuzione globale di fatto”, il decreto legislativo 23/2015 invece indica, come base di calcolo, “l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”.
Il lavoratore potrà esercitare tale facoltà entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione. Finchè tale opzione non verrà esercitata, al lavoratore spetterà la retribuzione dal momento della sentenza di reintegrazione.
Inoltre, il Decreto legge n. 87/2018 (Decreto-Legge Dignità) convertito con modificazioni in Legge n. 96/2018, è intervenuto sulla misura delle indennità da corrispondere in caso di licenziamento illegittimo ai lavoratori cui si applica il D.lgs. n. 23/2015.
Ai contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati dal 7 marzo 2015 o ai contratti a termine o di apprendistato “trasformati o stabilizzati” a tempo indeterminato dopo quella data, mentre per i lavoratori assunti al 6 marzo 2015 continuano ad applicarsi le norme della Riforma Fornero (Legge n. 92/2012).
Va poi segnalata la possibilità, per il lavoratore, di ottenere un risarcimento per il pregiudizio economico subito a causa dell’illegittimo licenziamento allo stesso comminato; rileva poi, quanto stabilito dalla giurisprudenza di legittimità relativamente al danno morale e comunque non patrimoniale, patito dal lavoratore licenziato. Nello specifico con la sentenza n. 3147 dell’1/4/99, la Corte di Cassazione ha previsto che il licenziamento illegittimo, se ingiurioso, può portare al risarcimento del danno morale e del danno all’immagine in favore del lavoratore, il quale potrà ottenere il ristoro di tale pregiudizio nel caso in cui dimostri che l’ingiuria insita nel licenziamento, sia stata pubblicizzata dal datore di lavoro, con conseguente lesione della reputazione del lavoratore.
Casistica (a cura della redazione)
È liberamente valutabile dal giudice, ai sensi del medesimo decreto (art. 20) l’idoneità di ogni diverso documento informatico, quale l’e-mail tradizionale, a soddisfare il requisito della forma scritta, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità. l’efficacia prevista dall’art. 2702 c.c. può essere riconosciuta solo al documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale (Corte di Cassazione, sentenza 15 marzo 2018, n. 6425).
Pur in assenza di precedenti disciplinari e di persistente pregiudizio economico, se il comportamento del dipendente ha pregiudicato il rapporto di fiducia intercorrente con il datore di lavoro il licenziamento è legittimo. Non rileva che il lavoratore abbia sempre avuto una condotta impeccabile nei lunghi anni di servizio prestato e che abbia provveduto a risarcire il danno (Cassazione n. 12641/2021).
Ai fini del licenziamento per giusta causa, i fatti non contestati tempestivamente possono comunque essere considerati quali elementi rafforzativi in relazione ad altri addebiti tempestivamente contestati. La valutazione in concreto è rimessa al giudice del merito ma la Suprema Corte ha chiarito che può tenersi conto anche di precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento (Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 3 novembre 2016, n. 22322).
La giusta causa di licenziamento non può ritenersi integrata sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e di una ritenuta incidenza di quest’ultimo sul rapporto fiduciario e sull’immagine dell’azienda (Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 10 settembre 2003, n. 13294).
Il giudice non deve applicare automaticamente la sanzione del licenziamento prevista dal contratto collettivo per una determinata infrazione ma è necessaria una valutazione sull’adeguatezza nel caso specifico. Il giudice deve tener conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e, quindi, della legittimità della sanzione stessa (Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 21 maggio 2009, n. 11846).
Il dipendente che, parlando male dei servizi offerti dall’azienda e della professionalità dei colleghi, denigri l’azienda per la quale lavora cagionando un danno all’immagine dell’impresa, è passibile di licenziamento per giusta causa (Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 14 settembre 2007, n. 19232).
È legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che pubblichi sui social network (nella specie, Facebook) immagini e commenti offensivi nei confronti della società datrice, non potendo essere invocato dal dipendente un divieto ex art. 8, L. 300/70 di interferenza nella vita privata posto che l’accesso al suo profilo Facebook è volto ad accertare non le sue opinioni bensì atteggiamenti rilevanti ai fini della verifica delle sue attitudini professionali, stante la potenzialità diffusiva del materiale postato (Cassazione civile, sez. lavoro, ordinanza 12 novembre 2018, n. 28878).
È legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore a fronte di comunicazioni con contenuti gravemente offensivi nei confronti dei superiori gerarchici e dei vertici aziendali contenute in e-mail e messaggi pubblicati su un profilo social del dipendente senza limitazioni di accesso (Cassazione n. 27939/2021).
>> Leggi anche:
• Licenziamento individuale
• Il licenziamento disciplinare per giusta causa non necessita del giudicato penale (Cassazione civile, Sez. lav., sentenza n. 37318/2022)
• Licenziamento dirigente: la differenza fra giusta causa, giustificato motivo e giustificatezza (Cassazione civile, Sez. lav., ordinanza n. 88/2023)
Per approfondimenti:
• Il Lavoro nella giurisprudenza, mensile di dottrina e giurisprudenza di legittimità e di merito in materia di rapporto di lavoro privato e pubblico, previdenza, sicurezza sul lavoro e processo del lavoro (direzione scientifica: Brollo Marina, Carinci Franco, Filì Valeria, Miscione Michele), ed. IPSOA >> Scarica un numero gratuito

 

  • Dr. Raja SHAHED

    Doctorate Degree in Defense and Security Science (PhD)

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